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La sospensione delle attività 
La pandemia denominata Covid-19 (c.d. Coronavirus) ha avuto un forte impatto sulle comuni abitudini di vita quotidiana a fronte delle limitazioni delle libertà e dei diritti fondamentali, come conseguenza ai progressivi e recenti provvedimenti legislativi. Sia l'evento pandemia in sé considerato, sia la natura legislativa dei provvedimenti imposti autoritativamente e conseguenti al c.d. lockdown, come unica misura contenitiva contrastante la diffusione del virus e a tutela della salute pubblica (art. 32 Cost.), in assenza di una cura specifica hanno generato un vero e proprio "blocco economico dell'intero sistema produttivo" del Paese, soprattutto dei rapporti giuridici pendenti coinvolti. L'emergenza Covid-19 (dichiarata con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020) come è noto ha fortemente interessato il territorio nazionale, coinvolgendo, soprattutto, le regioni del nord Italia e le attività di impresa ivi presenti (prime zone rosse). Nonostante fossero state introdotte le prime misure di contenimento della diffusione del virus, ci si rendeva progressivamente conto della pericolosità della malattia - dichiarata "pandemia" dall'O.M.S. nel marzo 2020 - e dell'assoluta necessità di evitare il "tracollo" del sistema sanitario. Si susseguiva, dunque, una serie di provvedimenti legislativi emergenziali, sotto forma di D.P.C.M. (decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Aggravatasi la situazione, il Governo è intervenuto con misure di contenimento atte a prevenire la diffusione del virus, tra cui la sospensione delle attività non produttive c.d. indispensabili e strategiche. Ci si riferisce al d.l. n. 6/2020 recante "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19" e ai successivi D.P.C.M.

Normativa ernergenziale 
L'art. 3, comma 6-bis, del d.l. n. 6/2020, inserito dall'art. 91 del d.l. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2020, prevede che il rispetto delle misure contenimento di cui al predetto decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche per quanto riguarda l'applicazione di eventuali decadenze o penali legate a omessi o ritardati adempimenti. Secondo l'Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione (Relazione tematica n 56 dell'8 luglio 2020), la norma è di difficile interpretazione su due piani. Secondo un primo profilo, la responsabilità del debitore inadempiente per via della necessità di rispettare le misure di contenimento sembrerebbe elisa già in virtù dell'art. 1218 c.c. Sotto altro profilo, invece, la norma non esclude tout court la responsabilità "da adeguamento" alle misure anti-Covid, piuttosto stabilendo che il rispetto di queste sia "sempre valutato" ai fini del giudizio di responsabilità. Pertanto, lo sforzo di adattamento alle prescrizioni sanitarie non assurge a esimente automatica dell'inadempimento. Pertanto, sulla scorta di tale interpretazione, non è il singolo debitore, semmai la pubblica autorità, a dover soppesare i rischi dell'epidemia. L'inadempimento non sarebbe in questo caso giustificato dalla causa straordinaria di giustificazione tratteggiata dalla legislazione emergenziale. Dunque, secondo tale linea interpretativa, per liberarsi dalla responsabilità l'obbligato non può limitarsi ad allegare assiomaticamente che l'inadempimento è ascrivibile alle misure anti-contagio, dovendo, al contrario, secondo la previsione dell'art. 1218 c.c., offrire la prova circostanziata del collegamento eziologico tra l'inadempimento e la causa impossibilitante rappresentata dal rispetto delle prescrizioni di contenimento dell'epidemia. Inoltre, si rileva che la norma d'emergenza include anche un richiamo all'art. 1223 c.c. In base a un'acuta impostazione ermeneutica, la norma attenderebbe alla finalità di sterilizzare gli effetti sostanziali che derivano dall'inadempimento del debitore in presenza di una situazione fisiologica; il legislatore avrebbe inteso regolare una causa emergenziale di giustificazione, destinata ovviamente a terminare con la fine dell'emergenza. Ne conseguirebbe una figura di debitore definibile come "immune". Qualora l'eccezione di inadempimento fosse preclusa, l'intero peso delle conseguenze economiche dell'emergenza finirebbero con l'essere sopportate dal creditore, pagando per una prestazione che egli non ha ancora ricevuto e che rischia di non ricevere più.

Percorso condiviso per la ricontrattazione delle locazioni commerciali 
Le disposizioni dell'art. 6-novies del d.l. n. 41/2021, convertito con modificazioni in l. n. 69/2021, così come sostituito dal sostituito dall'art. 4-bis, comma 1 d.l. n. 73/2021, convertito con modificazioni in l.n. 106/2021, sono atte a consentire un percorso regolato di condivisione dell'impatto che deriva dall'emergenza epidemiologica da Covid-19, per tutelare le imprese e le controparti locatrici, nei casi in cui il locatario abbia subito una significativa diminuzione del volume d'affari, del fatturato o dei corrispettivi, derivante dalla riduzione dei flussi turistici legati alla crisi pandemica in atto, dalla crisi economica di alcuni comparti, dalle restrizioni sanitarie. Locatario e locatore sono, infatti, tenuti a collaborare fra loro per ai fini della rideterminazione del canone di locazione. Il primo aspetto su cui va richiamata l'attenzione riguarda l'ambito di applicazione della norma. Sulla base di quanto indica la rubrica, emerge che riguarderebbe solo le locazioni commerciali (art 27 l.n. 392/1978). Per quanto riguarda le condizioni per l'applicazione della norma, questa richiede che l'impresa conduttrice «abbia subito una significativa diminuzione del volume d'affari, del fatturato o dei corrispettivi». Va inoltre osservato che la norma sembra volere dire che soltanto le vicende derivate dalla «crisi pandemica in atto» possano rilevare in relazione a quanto essa dispone. Ciò si ricava dalla parte introduttiva della disposizione che si riferisce all'«impatto economico derivante dall'emergenza epidemiologica da Covid-19». La norma prevede che locatore e conduttore siano «tenuti a collaborare tra di loro per rideterminare il canone di locazione». Nella formulazione dell'art.6-novies d.l. n. 41/2021 risultante dalla sostituzione operata dal d. l. n. 73/12021 si è specificato che locatore e conduttore sono invitati a collaborare tra di loro in buona fede per rideterminare temporaneamente il canone di locazione per un periodo massimo di cinque mesi nel corso del 2021 nei casi in cui il conduttore: 1) non abbia avuto diritto di accedere, a partire dall'8 marzo 2020, ad alcuna delle misure di sostegno economico adottate dallo Stato per far fronte agli effetti delle restrizioni imposte dall'emergenza sanitaria da Covid-19; ovvero 2) non abbia beneficiato di altri strumenti di supporto di carattere finanziario ed economici concordati con il locatore anche in funzione economica legata alla pandemia stessa. Infine, le suddette disposizioni vanno applicate esclusivamente ai locatari esercenti attività economica che: 1) abbiano registrato un ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi nel periodo compreso tra il 1° marzo 2020 e il 30 giugno 2021 inferiore almeno del 50% rispetto all'ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del periodo compreso tra il 1° marzo 2019 e il 30 giugno 2020; e 2) la cui attività sia stata sottoposta a chiusura obbligatoria per almeno 200 giorni anche non consecutivi a partire dall'8 marzo 2020. Trattasi di una previsione che sembra indicare un obiettivo, specificando le condizioni di applicazione, ma non definisce che cosa le parti dovrebbero concretamente fare. Del resto, tra le parti, sembra arduo ipotizzare, specialmente con riguardo al profilo economico del rapporto contrattuale, una "collaborazione", prospettandosi piuttosto un'attività di contrattazionein cui ogni parte cercherà di fare il proprio interesse, che non coinciderà - ma sarà anzi contrapposto - a quello della controparte.

La buona fede nei contratti e l'intervento integrativo del giudice 
Il dovere di rinegoziare va ricondotto al dovere di eseguire il contratto secondo buona fede, come prevede l'art. 1375 c.c. Questa conclusione si conferma usando un'altra norma, declinazione, anch'essa, del canone di correttezza contrattuale, - cioèl'art. 1366 c.c., secondo il quale «il contratto deve essere interpretato secondo buona fede». La norma va, prima di tutto, letta in pendant con l'art. 1362 c.c. atteso che "nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti". Cioè la lettura di un contratto di durata, secondo le regole della correttezza, porta l'interprete a rinvenire nel regolamento la comune volontà delle parti di ridiscutere le originarie condizioni di esecuzione quando queste si allontanino dall'iniziale logica economica dell'operazione, per effetto di eventi rilevanti e non causati né previsti dalle parti. Pertanto, viola il dovere di buona fede il contraente che pretenda l'adempimento di una clausola secondo una lettura vantaggiosa del testo contrattuale, che la controparte ha tuttavia diritto di intendere nel differente significato giustificato dall'interpretazione di buona fede, cioè, da una lettura che prenda in considerazione la natura del contratto e ogni circostanza comune vche valga a illuminare ii significato dell'operazione economica complessiva. Come sovente osservato, è necessaria un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1175 c.c., che sulla base dell'art. 2 Cost., in funzione dell'inderogabile dovere di solidarietà contrattuale, vieta di recare danno ad altri. Questa interpretazione permette di potere sostenere che la violazione del dovere abbia bisogno dell'intervento integrativo del contratto da parte del giudice. L'Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione (Relazione n. 56 dell'8 luglio 2020 ha precisato che è significativo che l'art. 1374 c.c. tratteggi l'intervento diretto sul contratto squilibrato, da parte del giudice, in ossequio a un principio di eterointegrazione correttiva del contratto secondo equità. Secondo i giudici «l'obbligo di rinegoziare è un obbligo di contrarre le modifiche del contratto primigenio suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell'altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza». Approfondendo tali considerazioni, è stato affermato che «la rinegoziazione implica l'obbligo di contrarre secondo le condizioni che risultano "giuste" avuto riguardo ai parametri risultanti dal testo originario del contratto, riconsiderati alla luce dei nuovi eventi imprevedibili e sopravvenuti. Qualora le due parti siano disponibili, si incontrano e concludono; qualora una delle due si neghi, è il giudice a decidere». In base a queste affermazioni, la relazione "tematica" in parola è giunta a ritenere che «al giudice potrebbe essere ascritto potere d, sostituirsi alle parti, pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo, la modifica del contratto originario». Ciò in applicazione della previsione dell'art. 2932 c.c. 

L'istituto dell'impossibilità parziale temporanea della prestazione
Si è inizialmente ipotizzato come miglior strumento in tema Covid-19 l'uso dell'istituo della "impossibilità parziale sopravvenuta" prevista dall'art. 1464 c.c.. Il ragionamento si basa sul fatto che nella vicenda del Covid-19, la prestazione divenuta soltanto parzialmente impossibile, poiché è stato violato l'obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l'uso contrattualmente stabilito ai sensi dell'art. 1575 c.c, ovviamente, tenendo presente che la situazione di "impossibilità sopravvenuta parziale",  allo stato, non ha le caratteristiche proprie della definitività. Inoltre, l'eventuale equiparazione economica dell'impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione contrattuale alla sua impossibilità totale non è rimessa alla valutazione del giudice di merito, ma  a quella del contraente interessato, che può recedere o chiedere una corrispondente riduzione della sua controprestazione, con ciò residuando una scelta discrezionale fra le parti. Infatti, l'art. 1464 c.c. conferisce soltanto al creditore la possibilità di scelta tra la riduzione della prestazione e il recesso, quest'ultimo da esercitarsi in ossequio al canone di buona fede. Dunque, se il creditore opta per ricevere la prestazione parziale, si verificherebbe il riequilibrio del principio di proporzionalità insieme a quello di correttezza che vige in tema di contratti - in forza di un provvedimento legislativo (factum principis) - considerato che i locali in cui viene svolta l'attività aziendale nel periodo del lockdown sono rimasti chiusi ed è divenuta parzialmente e temporaneamente  impossibile la prestazione dell'affittante, con la conseguenza che l'affittuario ha diritto ad una riduzione dell'affitto. Del resto, se pensiamo all'art. art. 1374 c.c., il contratto obbliga le parti non soltanto a quanto è nel medesimo espresso, ma altresì a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e le equità.

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